Giacobbo parla con “Ahustìne” e gli chiede se sta tenendo “la posta e li ciuhuàtte” (le civette), di cui riproduce il suono: “Cucuuiì… cucuuì…”. “LLi ppezzenìte” non se le può togliere di torno, la sera incominciano e la notte non smettono mai. Non fanno danno a nessuno ma gli fanno “arrufare” a pelle, perché ha sempre quel pensiero, quella paura… perché si dice che annunciano guai, Invita l’amico ad entrare, che non si raffreddi… perché il freddo riesce quando si è vecchi. Ma l’amico no ha paura, è giovane, è della classe de “Renèste” (Ernesto). Si portano sei mesi, ma quei sei mesi gli hanno gabbato un anno a “Renéste”, che fu richiamato alle armi e per poco non ci rimetteva “la scurze”. Tornò dalla prigionia con il mulo in cattive condizioni, da li “scatrafusse”. Tornò “sacche” che non si riconosceva, dopo essere passato “rùscele rùscele”, nascondendosi per no farsi catturare. Forse il mulo mangiava, ma lui no. Senza poter chiedere a nessuno dove si passava per tornare a “la Truciàlle” o “Furnarole”, Valle San Giuvanne… I muli tornano sempre nella loro stalla, ma il mulo che portava “Renèste” non era di quei posti, quindi non poteva sapere la strada. Il mulo poi è cocciuto e si impunta… Il dialogo prosegue con il ritorno dalla prigionia di “Renèste”, “nghe lu pastrane mezze squaràte”, che pure gli salvò la vita riparandolo dal freddo, quando dormiva sotto “nu petecòne de cerque” o dentre a “nu chiavecutte”. Ma parla anche de lu “jènnere de Bramìcce lu stradarùle” davanti al cimitero, su un’automobile rossa con a bordo la moglie “’nghe la capillìre”…
ELSO SIMONE SERPENTINI