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PigrewUn presepe suggestivo quello del 1993 al Teatro Romano di Teramo. Le pietre antiche, illuminate con discrezione, accoglievano la Natività come se il tempo si fosse fermato. Per alcuni giorni la neve scese lenta, posandosi sui gradini e sui volti silenziosi dei personaggi, rendendo tutto più fragile e vero, come un dono inatteso. Quando tornava il sole, i veli dei figuranti si muovevano appena nel vento, e sembrava che la scena respirasse. C’era in quell’alternarsi di neve e luce una sacralità semplice, profondamente umana, capace di commuovere senza clamore. Resta il ricordo di un presepe che non era solo da guardare, ma da sentire: un incontro tra storia e fede, tra freddo e calore, che ancora oggi affiora alla memoria con gratitudine e silenziosa emozione. A quel ricordo si accompagna anche la sensazione di una comunità raccolta, quasi in punta di piedi, davanti a qualcosa che andava oltre la semplice rappresentazione. Il Teatro Romano, luogo di voci e di storie antiche, sembrava farsi culla, spazio di attesa e di ascolto, dove ogni passo risuonava con rispetto. In quelle sere si aveva l’impressione che il presepe parlasse al presente senza bisogno di parole: la povertà della scena, l’essenzialità dei gesti, il silenzio interrotto solo dal freddo o dal fruscio dei veli invitavano a rallentare, a ritrovare un senso di misura e di interiorità. Anche chi passava distrattamente finiva per fermarsi, catturato da un’atmosfera che non chiedeva attenzione, ma la meritava. Col tempo, quel presepe del 1993 si è trasformato in memoria condivisa, in immagine che ritorna come un rifugio emotivo. Non solo un evento natalizio, ma un momento in cui la bellezza discreta e la semplicità riuscirono a lasciare un segno duraturo, come fanno le cose autentiche: senza imporsi, restando.
ELSO SIMONE SERPENTINI