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Meletti_25092009«Parte dell'Appennino si muove verso l'Adriatico, mentre un'altra parte resta indietro. Come se si tirassero due lembi di un lenzuolo fino a strapparlo. In questo modo l'Appennino si sta lacerando». Lo spiega  il sismologo Carlo Meletti al Messaggero, responsabile del Centro di pericolosità sismica dell'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). «L'alta pericolosità sismica della zona appenninica non è di certo un mistero», sottolinea Meletti. Se il sisma abbia riattivato altre faglie è «qualcosa che non possiamo sapere», aggiunge. «Con le nostre attuali conoscenze, infatti, non siamo in grado di valutare lo stato di una faglia. Sappiamo che prima di un terremoto si crea uno stato di tensione, ma noi ce ne accorgiamo solo quando la roccia si spacca perché non regge più alla deformazione. Attualmente, infatti, non c'è modo di misurare la tensione di una faglia. E né tanto meno di prevedere dove e quando ci sarà un terremoto». Intervistata da Repubblica, la sismologa dell'Università di Harvard Marine Denolle sottolinea che la parola «previsione» nel campo della sismologia è ancora «tabù. Specialmente dopo quel che è avvenuto a L'Aquila». Ma qualcosa si sta muovendo, spiega, «California e Giappone sono diventati paesi guida nell'adozione dei sistemi di allerta rapida». Il «più efficiente» di questi sistemi, spiega, «è in Giappone. Ma è estremamente costoso. Ci vogliono numerosissimi sensori distribuiti per tutto il paese e algoritmi precisi per interpretare questi segnali e inviare i messaggi di allerta». Ma prima che tali sistemi «possano essere considerati sicuri e adottati dalle autorità pubbliche ci vogliono tantissimi test e validazioni. E se la scossa è vicina l'allarme può arrivare solo pochi secondi prima: utile solo fino a un certo punto».