Era un’istituzione. No, di più: era un monumento. Berardo era parte dell’orizzonte di Teramo. All’anagrafe aveva anche un cognome, Di Francescantonio, ma per tutti era solo Berardo, anzi: Bar Berardo, in una pressoché totale identificazione tra il suo essere e la sua attività, quel bar a due passi dalle pietre del teatro romano, nel quale Berardo aveva rivisto e disintegrato a modo suo tutte le regole della modernità “baristica”. Niente aperitivi modaioli o cocktail di tendenza, l’aperitivo era nostrano, scolpito tra “lesche” di pane e salsiccia, fuje, bicchieri di vino giusto, tutto in dosi generose. E a colazione, se volevi, c’era anche il cornetto di rito, ma la regola era la fettona di ciambellone fatto in casa, con tutti i suoi sapori di risveglio domestico. Ma il prodotto migliore era proprio lui, Berardo, che non risparmiava generose dosi di sorrisi, di battute, di umana vicinanza. Se ne è andato nella notte. Ucciso sembra dal maledetto virus che segna la nostra epoca. Aveva lasciato qualche mese fa la sua attività, che adesso ha un nome moderno e una clientela giovane, che forse non ha mai conosciuto Berardo. Ma Berardo c’è e ci sarà sempre, perché quelli come lui non se vanno, restano. Come le pietre del teatro romano... perché di quelle era fatto Berardo. Di teramanitá antica e verace.