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Bertolt Brecht è stato, innanzitutto, un grandissimo poeta, probabilmente non compreso ancora pienamente, forse studiato male e maldestramente imitato – vedi Fortini –; sicuramente il più originale e coraggioso del '900: Brecht ha avuto il coraggio che invece è mancato a Charles Baudelaire nell'800, vale a dire quello necessario per riuscire, convincentemente, a staccarsi dalla forma per farsi forma nuova.




Ma sicuramente il poeta di Augusta, Premio Lenin 1954, è stato l'unico e indiscusso riformatore del teatro novecentesco, del teatro d'opera più che di prosa, considerata l'importanza della musica, della canzone cantata, financo dei cori, nel suo dettato drammaturgico; riforma teorizzata mentre veniva praticata, perché la teoria può essere solo figliata dalla pratica, dal fare dell’artista, e mai può accadere il contrario. Per questo il suo teatro è strutturato a partire dagli strumenti scenici, ed è il primo a utilizzare più linguaggi integrati nella recita, complementari, di uguale importanza drammaturgica: la multimedialità sulla scena l'ha portata lui per primo – basti ricordare la cartellonistica che anticipa i temi e le proiezioni video che li accompagnano –, determinandone la grammatica della meccanica della scena aperta, messa a vista, definendo così un insieme di mezzi espressivi prima inusitato.




Il rigore brechtiano è una lezione di stile per qualsiasi scrittore e per qualsiasi scrittura, Lezione oggi messa ai margini non perché marxista – ha fatto più Brecht per il comunismo che Carl Marx, perché ne ha capito e concluso l'azione pratica, la presa sociale del materialismo storico – ma, al contrario, perché è di una attualità evidente, frastornante, di presa pratica del mondo e delle sue società umane: è difficilissima da rendere la grandezza delle sue drammaturgie senza cadere nel didascalico, che è il rischio più grande quando si affronta l'immensa opera teatrale di Bertolt Brecht.




Ma nel Galileo questa sua peculiarità perde di mordente perché questo suo testo è più da leggere che da dire, e più teorico-ideologico che pratico: racconta, più che mettere in scena, una azione dell'esempio umano; si perde, è giusto dirlo, paradossalmente, nell'immedesimazione; tradisce il concetto di teatro epico, di straniamento.




Basta leggerlo, si è detto, per comprendere che questa non sia la sua migliore drammaturgia – siamo nel '39 quando la scrittura ha un suo compimento, e il poeta è già in esilio da sei anni e forse tenta una sua propria immedesimazione nelle vicende dello scienziato pisano, ostacolato nell'esercizio della ragione umana dalla Chiesa come lui lo era dalla follia nazista, dal pazzo "imbianchino" austriaco, come si divertiva a beffeggiare Adolf Hitler, dileggiando le sue velleità di pittore, posizione che forse lo ha nuociuto, fiaccando per una volta il suo rigore formale –, eccessivamente verbosa, con battute di dialogo lunghissime, che sfiorano il monologo, la predica, che per questo perdono il punto cruciale della scrittura drammaturgica, cioè l'azione: in questo testo non accade nulla perché è, semplicemente, una biografia dialogica, piacevole da leggere ma assolutamente inadeguata da portare sulle tavole di un palcoscenico determinato dalla grammatica della meccanica della scena aperta: nel Galileo di Brecht manca l'operare di senso di Bertolt Brecht, che porta l'esperienza umana innanzi all'uomo, nella speranza che in questa si riveda per emendarsi, per migliorarsi contribuendo al progresso e allo sviluppo egualitario della società industriale, oggi post industriale, vale a dire tutta da reinventare, dove i concetti di teatro epico e straniamento potrebbero essere determinanti per rifare il mondo.




Ma qui, in questo Galileo, non canta mai nessuno, per ritornare al senso, perso, di Bertolt Brecht.

MASSIMO RIDOLFI