• MCDONALDS
×

Avviso

Non ci sono cétégorie

corrosivo

A tradurre l’Inferno di Dante in dialetto teramano ci aveva già provato a fine Ottocento Filippo Dottorelli e ne aveva tradotto qualche canto. Poi negli anni venti del Novecento Guglielmo Cameli provò a scrivere lui un suo Inferno, ma non in dialetto teramano - del quale era maestro tanto da essere uno dei massimi autori di poesie dialettali teramane - bensì in lingua italiana, chiamandone a protagonisti alcuni suoi contemporanei. Beh, confesso di averci provato anch’io a tradurre qualche verso, solo qualche verso, nemmeno un canto intero, e il tentativo mi aveva convinto dell’estrema difficoltà del compito. Compito che pure mi pareva eseguito assai bene in una traduzione dell’Inferno dantesco in lingua spagnola, che, quando ero adolescente, uno zio ritornato dal Venezuela, dove era stato emigrato per cinque anni, mi aveva portato come regalo. Si trattava di una traduzione esemplare, che conservava non solo la struttura metrica delle terzine dantesche, ma lo spirito e il senso. In dialetto teramano non era facile ottenere lo stesso risultato, perché trattandosi di una lingua del popolo, certi concetti era difficile esprimerli senza farli sembrare ridicoli e inappropriati, non nelle corde dell’uso del vernacolo. Si doveva ricorrere a termini che mai un popolano delle nostre parti avrebbe utilizzato, a vocaboli inventati e del tutto inattendibili, a neologismi eccentrici, o a traduzioni letterali dall’italiano in un vernacolo maccheronico. Eppure in altri dialetti italiani qualcuno ci aveva provato e il risultato non era stato del tutto scandaloso. È che quando vai a tradurre in dialetto teramano la terzine dantesche, ti accorgi subito che non riesci a staccarti dal piano della parodia e della satira, ti viene fuori una cosa comica che è assai poco dantesca e del tutto ridanciana.

Libroinfe

​Eppure quando ho provato io a rimare in dialetto teramano, ho usato per lo più la struttura classica del sonetto, con tanto di quartine e terzine e rime baciate o alternate, e avventurandomi nel trattare temi non proprio comuni nella poesia dialettale, argomenti filosofici e teorie di filosofi quali Socrate, Platone, Zeone di Elea, Hegel… e il risultato non mi era sembrato da scartare. Anche quelle tematiche non consuete nella poesia dialettale necessitavano di un approdo in una terminologia coraggiosa, alla quale costringe il fatto che il dialetto, appunto per essere popolano e popolare, mal si adatta a questioni che non siano concrete, come i fatti della vita quotidiana, cittadina o rurale, ma astratte, come, appunto, i concetti filosofici. Ho intitolato la mia raccolta di versi in dialetto teramano “La natura de li cose”, proprio per rifarmi al titolo dell’opera poetica di Lucrezio, “De Rerum Natura” (La natura delle cose), titolo attribuito anche, convenzionalmente, a molte opere di filosofi presocratici di cui non conosciamo né il titolo vero né l’intero corpo, tanto da averne sono frammenti (fragmenta).

​Bene, teniamo a mente, allora, che tentare di tradurre l’Inferno dantesco in dialetto teramano è impresa ardua, perché difficilmente si sfugge al pericolo di scadere nella parodia, che allontana in modo ineluttabile e imperdonabile dallo spirito del “Divino” autore. Ma non sfugge che, in fondo, anche la lingua di Dante era, prima che diventasse una lingua nazionale, la nostra lingua italiana, un dialetto, quello fiorentino, definito “volgare”proprio perché usato dal volgo, diverso dal latino e dal greco, definite lingue classiche. Quindi, in fondo, tradurre l’Inferno dantesco in dialetto teramano non è altro che una traduzione da un dialetto all’altro? Beh, no. È qualcosa di più, e proprio per questo si corre il rischio di planare, spudoratamente, sul terreno dalla parodia.

​E’ uscito di recente dalle stampe della casa editrice Evoè una traduzione dell’Inferno dantesco di tale Pessimo De Libertis, pseudonimo di uno stimato professionista teramano, un medico andato in pensione, Ottorino Carloni, che (come tutti quelli che vanno in pensione senza limitarsi ad andare ai giardinetti pubblici e sedersi su una panchina, e si danno ad esprimere il proprio precedente inespresso in termini di creatività e danno il meglio di se) si è cimentato nell’ardua impresa sopra citata, di tradurre in dialetto teramano l’Inferno di Dante. Consapevole del rischio di cadere nel peccato di parodia e di far diventare davvero una commedia un prodotto letterario che di commedia ha solo il termine (e in una precisa accezione di significato) ed è per di più, come commedia, divina, l’autore ha subito sposato, nella scelta dello pseudonimo e nel titolo della sua traduzione, la chiave del’autoironia, che lo emenda in partenza di ogni colpa. Scegliendo per nome quello di “Pessimo” e per cognome “De Libertis” -, quindi facendo capire di essere disposto a darsi pessimamente ad ogni libertinaggio poetico - ha poi dato alla sua traduzione il titolo di “La devastazione de lu ‘nferne”, facendo subito intendere la sua perfetta consapevolezza di avere, più che tradotto, “devastato” l’Inferno dantesco. 

​Mettendo le mani avanti, si è subito difeso preventivamente da ogni accusa o insulto che gli possa venire dai lettori. Lo confesso: ho preso in mano il libro con la puzza al naso. Ero pronto a vedere il dialetto teramano scritto come lo scrivonocoloro che non lo sanno scrivere, ridotto a puro ostrogoto dalla mancanza di vocali e dalla presenza di sole consonanti (tipo “ng cpt p nind”), ma ho trovato una trascrizione perfetta del nostro dialetto, con tutte le vocali al loro posto. Poi ho intrapreso la lettura pronto a trovarmi di fronte ad una vera tragedia sul piano della struttura metrica, a causa delle difficoltà di conservare il metro e la rima di una terzina dantesca. Ma ho dovuto constatare che, a parte qualche decasillabo galeotto che ruba il posto ad un endecasillabo mancato), anche la struttura metrica è a posto. Allora, reso più sicuro dalla premessa dell’autore, in realtà una promessa, anzi un giuramento, di non provare mai a tradurre anche il Purgatorio e il Paradiso, sono subito corso a vedere come l’autore della traduzione avesse risolto il nodo spinoso dei passi più celebri dell’Inferno, l’esordio, la selva oscura, Caronte, Paolo e Francesca, Farinata, per vedere come fosse stato risolto il compito più arduo. Devo dire che la soluzione è pienamente soddisfacente. Certo, bisogna capire quello che succede. La corda non è quella tesa e vibrante di Dante, la vena della parodia e delle satira rende la corda meno tesa e vibrante, anzi proprio lenta  e stridula, sempre sul punto di strapparti una risata, ma poi ti ricordi che l’autore ti ha avvertito di aver devastato, non tradotto, l’Inferno di Dante e non ridi, ti limiti a sorridere. E capisci che l’autore della traduzione non lo devi perdonare per la devastazione compiuta, ma compiacerti con lui per averti divertito. Sì che l’unico motivo che mi lascia questo simpatico autore di muovergli una critica è di aver scritto “lu ‘nferne”, anziché semplicemente “l’inferne” come secondo me avrebbe dovuto, non avendo mai io sentito qualcuno dire in teramano “lu ‘nferne”, ma sempre “l’inferne”. A parte questa unica critica negativa, cosa comunque di poco conto, devo compiacermi con lui, anche per la sua arguzia e per la sua previdenza, perché, mettendo le mani avanti, come dicevo, “pessimo” ci si è definito da sé. Ma certamente sperando che il lettore gli dicesse “ottimo”, come faccio io volentieri.

​​​​​​​Elso Simone Serpentini