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Nella seconda settimana di giugno 1944 interi reparti cominciarono a lasciare Teramo in modo ancora più consistente. “Chi nella notte vegliava” scrive Adamoli nel suo memoriale (“Nel turbinio di una tempesta. Dalle pagine del mio diario, 1943- 44”, Tipografia Cioschi, 1947) “poteva udire fuori, nella strada movimenti, rumori non consueti di carri, autocarri, quadrupedi. Nei giorni successivi, nei primi di giugno, ai carri militari seguivano carri agricoli, vetture di ogni specie, tirati da buoi, da cavalli, da muli, da asini, di cui la nostra campagna, le nostre fattorie, tutti i nostri villaggi erano stati depredati, spogliati. Carri colmi della roba più varia: dalla biancheria ai mobili; dai viveri agli utensili caserecci e campestri, tolti spietatamente al nostro lavoro, alla santità dei nostri affetti, al sacrario dei nostri familiari ricordi”. Adamoli aggiunge che tutto quello che i tedeschi non potevano portare con sé lo rompevano, lo distruggevano o lo vendevano. A mano a mano che i comandi se ne andavano, portavano via tutto quello che potevano trascinarsi appresso dalle case dove si erano stanziati. Non erano soltanto i soldati a predare e a saccheggiare, ma anche gli ufficiali. Gli ultimi ad andarsene erano i più temuti, “i guastatori”, che nessuna autorità sembrava potesse fermare, nemmeno quelle tedesche.
Adamoli si prodigò molto per ridurre i danni, per contenere l’ira e la tracotanza dei tedeschi, per salvare la città, aiutato, riferisce nel suo memoriale, da due interpreti, uno, di cui non ricorda il nome, un soldato austriaco, professore di belle arti nelle scuole di Vienna, e l’altro un croato, già capitano distrettuale, il dott. Zeliko Zijvanovic. Adamoli ricorda anche l’ultima frase che gli disse il capitano tedesco Carlo Canger prima di lasciare Teramo: «All’arrivo degli Anglo-Americani, che voi aspettate, farete festa. Voi imbandiererete la vostra città, suonerete le vostre campane, farete i vostri cortei, canterete le vostre canzoni, ritenendo che essi siano migliori di noi. Non è così e ci ricorderete quando saremo lontani».
Partiti i reparti, davvero piombarono in città, come s’era temuto, “i guastatori”, che secondo Adamoli erano “i nefasti soldati della rovina organizzata. Non erano soldati, erano predoni della peggiore specie. Distruggevano, è vero, le officine, i mulini, le cabine per l’energia elettrica, gli impianti telefonici e telegrafici, l’acquedotto, i ponti; ma penetravano anche, a mano armata, forzando le porte, nelle rimesse, nei negozi, nei magazzini, nelle case, per svaligiarvi quanto ancora vi rimaneva. Derubavano pure le persone, che s’avventuravano per la strada, con oggetti di valore”. Anche contro i “guastatori” Umberto Adamoli usò tutto il proprio coraggio e le sue arti diplomatiche per ridurre alla città e ai teramani, per quanto gli fu possibile, danni e dispiaceri.
Adamoli nel suo memoriale si rammarica che gli si togliesse, all’ultimo momento, la modesta soddisfazione di consegnare egli stesso la città intatta ai liberatori, essendo stato sostituito, con la partenza dell’ultimo tedesco, nella carica di podestà. La Prefettura aveva ritenuto opportuno far trovare al suo posto, all’arrivo degli alleati, un suo funzionario.
Il 27 giugno 1944 le preoccupazioni sulla propria sorte dell’ex podestà di Teramo Umberto Adamoli si concretizzarono e venne arrestato, così come il vice commissario ausiliario di P.S. Giuseppe Arminio e la guardia scelta Alfredo D’Amico. Armando Ammazzalorso dal balcone della Prefettura aveva detto che bisognava essere generosi con i fascisti e perdonarli, ma le epurazioni e le vendette erano già iniziate. Il racconto che fa del suo arresto lo stesso Adamoli restituisce bene le sensazioni che dovette provare davanti ad una realtà che aveva immaginato, ma che ora gli si presentava davanti in tutta la sua drammaticità. Un pomeriggio si presentarono nella sua abitazione alcuni agenti della polizia polacca, così si qualificarono, e, dopo aver frugato dappertutto e prelevato documenti e altre carte, lo invitarono a seguirli presso la sede che era stata quella della GIL. Gli annunciarono che sarebbe stato interrogato da un ufficiale. Dopo un’attesa in una sala del primo piano, il suo nervosismo cresceva, vedendo “un largo movimento di gente di incerta origine, di agenti, di soldati”. “A mano a mano che il sole declinava” racconta Adamoli “quel movimento diminuiva, finiva. In fondo, vicino all’ingresso, erano rimasti, come sentinelle, due soldati armati. Ogni cosa faceva credere che io fossi in istato d’arresto, in attesa di trasferimento. Scendeva intanto la notte, ma quell’ufficiale non giungeva. Questo ritardo mi preoccupava, non per me, ormai filosoficamente rassegnato a tutto, ma per la mia famiglia, che a quell’ora non mi vedeva rientrare”. Quando, finalmente, l’ufficiale arrivò, si mostrò cordiale e, dopo un breve colloquio, lo congedò, assicurandogli che non sarebbe stato più molestato, essendo risultata la sua condotta “sotto ogni punto di vista, chiara, onesta, umanamente italiana”. Tornato a casa, davvero pensò che ogni preoccupazione potesse svanire, se non che cominciò ad essere sottoposto “ad atti contrari”, scrive Adamoli con singolare espressione da “un noto bisbetico uomo”, di cui non fa il nome, ma di cui dice che non voleva farsi sfuggire l’occasione di una vendetta, essendo stato a suo tempo “da lui molestato nel mal godimento della sua male amministrata ricchezza” mentre il popolo era sofferente e gli sfollati senza tetto. È vero che era stato disposto dalle nuove autorità l’arresto degli ex podestà, ma solo di quelli nominati dal Fascismo repubblicano. Essendo lui di nomina regia, dal lontano 1939, non avrebbe dovuto essere arrestato. Ma quel signore, “un uomo della Questura” finse di ignorare questa eccezione e decise arbitrariamente di estendere anche lui il provvedimento di arresto. Così un giorno, trovandosi ad attraversare la piazza del Carmine, si vide parare davanti due agenti che lo invitarono ad andare con loro in Questura. Qui giunto “quel galantuomo, con il tradizionale ipocrito pianto del coccodrillo” lo aveva dichiarato in stato di fermo e lo aveva fatto condurre, senza poter salutare la famiglia “in quel fabbricato dalle ben ferrate porte”, come Adamoli chiama il carcere di Sant’Agostino dove fu portato, rinchiuso nella camerata n. 6 dopo tutte le formalità di rito. Vi trovò già reclusi altri teramani giovani e “probi cittadini”, onesti funzionari, che erano stati arrestati prima di lui, fra i quali il notissimo poeta dialettale Guglielmo Cameli, noto come “Fortunello”, e nella circostanza davvero poco fortunato. Adamoli fa una descrizione colorita di quella brigata, che si dilettava alle “briose” poesie che Cameli recitava, e si manteneva serena o ilare, quando altri raccontavano novelle di sapore boccaccesco, ma non quando qualcuno di loro raccontava “le bastonature alle quali erano stati vigliaccamente sottoposti all’atto dell’arresto”.
Adamoli racconta di essere rimasto in quei giorni in carcere personalmente rassegnato, attonito, quasi incredulo quando le guardie a volte irrompevano di giorno nella camerata, per rovistare nei pagliericci, tra le coperte, negli indumenti o per effettuare, anche sui detenuti politici, perquisizioni personali, e di notte battevano alle inferriate, per accertarne l’integrità. L’ex podestà riconosce che a suo favore intervennero i primi componenti del CNL, che erano stati partigiani e che ora, con il loro sostegno, e perfino andando a trovarlo in carcere, come faceva Armando Ammazzalorso, gli assicuravano “il premio più ambito” per la sua onesta opera: la rimessa in libertà. Adamoli fa il nome di altri che intervennero a suo favore: Pio Mazzoni, Arturo Massignani, il maggiore Luigi Bologna, il capitano Carlo Canger, gli sfollati e perfino molti ebrei ai quali egli aveva salvato la vita o aveva sottratto alle deportazioni. Era stata “una vera affettuosa plebiscitaria manifestazione” che lo aveva confortato e alla quale certamente fu dovuta la sua liberazione, annunciatagli in carcere, senza che fosse stato mai interrogato, dal maggiore comandante della polizia inglese.
ELSO SIMONE SERPENTINI
(4/continua)