“Glamour, dealer, skinny, Diesel
Angel, dreamer, money, killer
Suck me, fucking, Playboy, rabbit
Fuck you, pay me, fuck me, baby”
AchilleLauro
Era un sabato quell’11 maggio 2019 quando Fabio, con uno stratagemma, era il giorno del mio compleanno, erano 46, mi convinse ad uscire di casa, per farci giusto un bicchiere, erano credo le 17 passate; e sbucando da via Duca d’Aosta, provenienza circonvallazione Ragusa (siamo a Teramo), su via Capuani, da Gianni (Osteria L’Assenzio) trovai all’esterno una tavolata di amici che mi stavano ad aspettare, perché Fabio aveva organizzato, a mia sorpresa, la mia festa di compleanno, e di loro molti non li vedevo da tempo, come Chiara.
Tra i molti regali, quello di Chiara fu un CD: 1969 di Achille Lauro (2019). Chiara non poteva sapere che proprio in quei giorni stavo ascoltando e vedendo tramite YouTubeesattamente lui, Achille e le sue prime esibizioni al Concertone del Primo Maggio, relegato nella sezione pomeridiana, che non vede mai nessuno o in pochi la vedono. Lei mi disse che aveva pensato di farmi quel regalo perché credeva che io avrei saputo apprezzarlo. E, infatti, lo apprezzai molto, e ho ascoltato molte volte quel disco, come ora mentre sto scrivendo queste quattro righe.
Molti oggi si scandalizzano di questa “trap” italiana, genere originato negli States a inizio millennio dai semi esplosi dell’hiphop;canzoni dai testi fin troppo espliciti e sessisti, violenti, delinquenziali. Molti si scandalizzano dei contenuti dei testi che fanno da corollario a questa musica, sintetizzata fino a rischiare il capolavoro del genere. Molti si scandalizzano come se quello che (frammentariamente) raccontano queste canzoni, non rispecchiasse invero la società che i nostri giovani (già non più giovani) vivono, che è proprio quella narrata dalla “trap” – proprio quella. Il centro con i negozi di lusso. La periferia degradata. La chiesa. La strada. La droga. L’acqua santa. Il ricco. Il povero. Chi ce la fa. Chi non ce la fa. Chi proprio non ce la fa. Madri ad attendere. Padri ad attendere. E genitori che non attendono nulla.Né un figlio. Né un cane. Né un prete.
Per questo credo che, tra tutti, Achille sia l’artista che in Italia sa più di tutti ridirci i nostri giovani, i nostri figli, ché sono sempre i genitori, dai tempi d’oro del Rock ‘n’Roll, dai tempi di Gioventù bruciata, cioè da quando Elvis svelò al mondo l’adolescenza (5 luglio 1954, SunRecords, Memphis, Tennessee), quelli che li conosco meno di tutti. Achille sa più di tutti sintetizzarne linguaggio e ritmo di questi nostri figli, così da registrarne l’esatto scollamento familistico, quindi sociale – di questi giovani allontanatisi per reazione da quello che il mondo adulto propone loro – come l’orrore del genitore amico, che pretende pure di essere più giovane del proprio figlio, tramutandosi molto spesso in un vecchio Frankenstein, ricucito in qualche modo, gonfioin qualche modo, e bucato pure in qualche modo. Tutti, grandi e piccini, immancabilmente tatuati e inanellati come selvaggi.
La musica sintetizzata e campionata, i testi frammentati – la “trap”non è altro che lo specchio riflesso (un vecchio giochetto di bambini) di quello che abbiamo lasciato ai nostri giovani, ai nostri figli. Vale a dire che da noi hanno ereditato una società deprivata di ogni valore morale, una giungla dove non vince più neanche il più forte ma il più ricco, che oggi è il nerd che in altri tempi sarebbe stato soggetto a sberleffo (oggi si direbbe bullizzato). Neanche le crude leggi di Natura ce la fanno più a ricondurci fuori dall’agonia di questa nostra costruita società di sola superficie, che non affonda mai perché oramai pratica di ogni genere di galleggiamento.
Quindi in questa nostra società comune conta oggi più che mai il danaro, ma guadagnato come non importa più a nessuno, basta che sia il più velocemente possibile.
E di tutto questo ci racconta la “trap”, di questa trappola italiana lasciata ai nostri giovani, ai nostri figli; e meglio di tutti sa farne di questa residuata società il suo proprio racconto, Achille, perché dello sfacelo che abbiamo lasciato riesce a estrarne e tradurne ancora una vena di romanticismo e di dolcezza.
Sì, Chiara, apprezzai molto quel tuo regalo, perché racconta in dieci canzoni, la forma artistica più potente che ci sia, i giovani, i figli, di oggi, che meglio non si potrebbe: per questo 1969 resta il capolavoro della “trap”, italiana.
Fashion, trendy, Basquiat, Bansky
Giungla, Bear Grylls, è Dakar, è rally
È Bohemien, è trendy, è Baudelaire, è Fendi
È Fight Club, è Brad Pitt, è tragedia, è Shakespeare
MASSIMO RIDOLFI