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IMG_5820.jpgGiacobbo ce l’ha con Bramìcce (Abramuccio), che ha il vizio di andare sempre in giro, alla ricerca di occasioni, quasi elemosinando, rischiando qualche rotta d’ossa. Ttaviàne (Ottaviano) ammoniva: “St’attìnte merle, ca la fratte è corte”. Stia attento Bramìcce, che uno di questi giorni gli potrebbe capitare di tornare a casa con le mani e con i piedi. Non ricorra a lui, se accade, per ché farà finta di non conoscerlo. Bramìcce spiega che è stato a Teramo alla festa di San Berardo e Giacobbo dice che lo sa bene che c’è stata la festa, ha sentito il campanone del Duomo di Teramo suonare. Sì proprio quel campanone che poco dopo la fine della guerra de “lu decedotte”, lu mazzule s’abbendò e cascò a terra, ma fu un miracolo perché non uccise nessuno. Però pece una pozza (‘nu vòreghe) sul terreno, ‘nde cacchedune avesse carpàte ‘na cerque. Perciò lui se ne sta alla larga. Il ricordo del congresso eucaristico lo suggestiona e lui lo rievoca con nostalgia, ma lui al campanone non si avvicina, sotto non ci va, “passa ‘ncantòne”. Gli spiace sentirlo suonare, ma sotto non ci va, ‘nce tè la hulìa. (non ha voglia). La citazione di Alberto Tomba che ha vinto il gigante è, more solito, giocato sul filo del fraintendimento ingenuo, ma tra le righe la furbizia contadina di Giacobbo emerge e poi si spande.