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DELFICOCHIUSOLi ho aspettati, oh se e come li ho aspettati! Ma lo sapevo che non sarebbero venuti. Sapevo che non avrebbero potuto farlo. Sapevo che avrebbero affrontato l’esame di maturità in altri istituti, dispersi ed esodati, come profughi di guerra, di una guerra che ho perduto. Sapevo che avrebbero aperto i loro astucci, preso la loro penna e letto le tracce dei compiti da svolgere su altri banchi e in altre aule, di altre scuole. Sapevo che mi avrebbero pensato e avrebbero avuto nostalgia di me. Ma anche io ho nostalgia di loro. Come non averne? Molti di loro non mi vedranno più e io non li vedrò più. Partiranno per l’università e non sarà consentito loro nemmeno di venirmi a salutare. Chi sa per quanti anni capiterà anche agli altri, che faranno l’esame di maturità dopo di loro. Io intanto me ne sto, e li penso. Io, il Liceo Delfico, maggior vanto di Teramo, sono confinato e condannato a morte. Forse. Qualcuno ha decretato il de profundis. Forse mi faranno altre visite mediche, altre diagnosi e saranno per me altre condanne e false promesse. Penso ai miei ragazzi e piango. Le mie aule sono vuote, i miei corridoi sono vuoti. Risento i loro passi, i loro rumori, le loro voci, le loro risate, i loro pianti dopo una interrogazione andata male. Ripenso ai loro filarini. Niente e nessuno si muove qui dentro, alcuni ragni hanno fatto le loro tele e sui banchi sta scendendo la polvere. Ogni tanto vedo passare nei corridoi vuoti qualche ratto. Ogni tanto sento che qualcuno tenta di forzare le finestre sul retro per entrare, e io sono indifeso. Ombre, fantasmi, spettri avanzano e si nascondono. Forse sono mie allucinazioni. Starò uscendo di senno. Non mi era mai successo prima di essere stato precluso ad ogni accesso, nemmeno durante gli anni della guerra, nemmeno in quelli dell’occupazione nazista. Ad uccidermi sono stati coloro che avrebbero dovuto badare alla mia manutenzione, i giudici che hanno emanato la sentenza e hanno sigillato le mie porte e le mie finestre. I miei ragazzi, oh i miei ragazzi! L’altra sera, la sera prima degli esami, sono venuti a cantare davanti al mio portone. Li ho sentiti e ho pianto di commozione. Avrei voluto rispondere al loro saluto, ma non ho potuto farlo. Non ho più voce. Non ho più forza. Non ho più coraggio. Aspetto. Mi ripiego su me stesso, triste e impolverato. Una volta, quando le mie vene erano piene di vita, mi sentivo vuoto solo la notte, ma vegliavo nella certezza che l’indomani i miei ragazzi sarebbero tornati a vociare nelle aule, nei corridoi, nei bagni. Ora per me ogni giorno è notte. E ho paura. Ho paura che possa essere per me notte per sempre. Ho paura che ragazzi non torneranno mai. Ho paura che possano voler fare di me ciò che non sono mai stato e che non so essere, perché io so essere solo una scuola. Una scuola di sapere e di vita. Ho paura che non tornerò mai ad esserlo. Ho paura. Salvatemi, perché ho il cuore pieno di angoscia.

ELSO SIMONE SERPENTINI