Il 18 ottobre 1975 Pier Paolo Pasolini pubblica sul Corriere della Sera un articolo dal titolo: “Aboliamo la TV e la scuola dell’obbligo”. Il poeta, armato della sua “esperienza privata, quotidiana, esistenziale”, che opponeva “ancora una volta all’offensiva astrattezza e approssimazione dei giornalisti e dei politici che non vivono queste cose”, nel suo pezzo attribuiva tutta la violenza di cui era capace la società che viveva, era l’anno dei fatti del Circeo e di Cinecittà, dei pariolini Izzo e Guido e dei fratelli Carlino di Torpignattara, prodotti da “un ambiente criminaloide di massa”, allora indistinta, non più distinguibile, alla “sopravvivenza di una retorica progressista che non ha più nulla a che fare con la realtà”, e proponeva come primo antidoto a cura della violenza: “1) Abolire immediatamente la scuola media dell’obbligo”. Come secondo antidoto invece proponeva: “2) Abolire immediatamente la televisione”, indicazione che oggi dobbiamo interpretare in modo più esteso e riferirci alla ampia e incontrollata sfera digitale.
Ovviamente, Pasolini si preoccupava anche della improvvisa disoccupazione che avrebbe colto quanti erano (e sono) impiegati in tali attività, allora solo statali, è bene ricordalo, proponendo: “Quanto agli insegnanti e agli impiegati della televisione possono anche non essere mangiati, come suggerirebbe Swift: ma semplicemente possono essere messi sotto cassa integrazione.” Fin troppo magnanimo fu quindi il poeta bolognese: io sono più per riutilizzarli come mangime da vendere ai cannibali Korowai della Nuova Guinea Occidentale altrimenti resterebbero ancora a carico dello Stato; i simpatici Korowai che mangiano carne umana avvolta in foglie di banano, preferendo il cervello ma mangiano tutto, ché dell’uomo scartano solo i capelli, le unghie e il pene, perché si sa che del maiale non si butta via niente o quasi niente.
Perché: “La scuola d’obbligo è una scuola di iniziazione alla qualità di vita piccolo borghese: vi si insegnano delle cose inutili, stupide, false, moralistiche, anche nei casi migliori. [...] Inoltre una nozione è dinamica solo se include la propria espansione e approfondimento: imparare un po’ di storia ha senso solo se si proietta nel futuro la possibilità di una reale cultura storica. Altrimenti, le nozioni marciscono: nascono morte, non avendo futuro, e la loro funzione dunque altro non è che creare, col loro insieme, un piccolo borghese schiavo al posto di un proletario o di un sottoproletario libero (cioè appartenente a un’altra cultura, che lo lascia vergine a capire eventualmente nuove cose reali, mentre è ben chiaro che chi ha fatto la scuola d’obbligo è prigioniero del proprio infimo cerchio di sapere, e si scandalizza di fronte ad ogni novità). Una buona quinta elementare basta oggi in Italia a un operaio e a suo figlio. Illuderlo di un avanzamento che è una degradazione è delittuoso: perché lo rende: primo, presuntuoso (a causa di quelle due miserabili cose che ha imparato); secondo (e spesso contemporaneamente), angosciamentefrustrato, perché quelle due cose che ha imparato altro non gli procurano che la coscienza della propria ignoranza. Certo arrivare fino all’ottava classe anziché alla quinta, o meglio, arrivare alla quindicesima classe, sarebbe, per me, come per tutti, l’optimum, suppongo. Ma poiché oggi in Italia la scuola d’obbligo è esattamente come io l’ho descritta (e mi angoscia letteralmente l’idea che vi venga aggiunta una “educazione sessuale”, magari così come la intende lo stesso “Paese Sera”), è meglio abolirla in attesa di tempi migliori: cioè di un altro sviluppo. (E’ questo il nodo della questione)”.
È ancora questo il nodo della questione: “Era in cui dei giovani insieme presuntuosi e frustrati a causa della stupidità e insieme dell’irraggiungibilità dei modelli proposti loro dalla scuola e dalla televisione, tendono inarrestabilmente ad essere o aggressivi fino alla delinquenza o passivi fino alla infelicità (che non è una colpa minore)”.
Finalmente, dopo cinquant’anni da questo storico articolo di Pasolini, sono sempre più frequenti le denunce riguardanti la realtà scolastica italiana: è di questi giorni la notizia di alunni ancora umiliati persino durante l’orale di maturità, e si è arrivati addirittura a dover condannare penalmente una maestra elementare ché vessava i suoi studenti, cioè dei bambini dai 6 agli 11 anni di età. Finalmente si arresta la maestra, caro Francesco: “Puttana puttana, puttana la maestra / Puttana puttana, puttana la maestra // Io sono andato al posto ricordo il foglio bianco / Bianco come un vuoto per vent’anni nel cervello”.
È urgente abolire la Scuola pubblica italiana, principale responsabile del degrado di questo Paese, e cominciare a valutare l’istituzione di scuole di comunità con la fondamentale riforma delle scuole elementari portandole fino a otto anni, con il successivo passaggio a scuole di avviamento professionale su base attitudinale. E si abolisca il voto, che crea competitività e per questo è altamente diseducativo: ci si limiti a un giudizio complessivo che sia dirimente e formativo, che includa, che interroghi prima di tutti il docente al fine di migliorare didattica e pedagogia. È oltremodo necessaria la chiusura di tutti gli atenei umanistici, sicuramente gli istituti più inutili: è il lavoro che forma l’uomo e mai lo studio. E lavoro significa sempre confronto con la società reale.
Lo Stato non può più accollarsi i costi di questo fallimento storico e i cittadini non possono più sopportare che i propri figli siano ridotti a odiatori di libri alla fine del proprio percorso scolastico causa programmi di studio e insegnanti inadeguati, tra l’altro gli unici lavoratori al mondo che riescono a lavorare, al massimo, solo 18 ore a settimana (un impiegato a settimana ne deve lavorare almeno 36, un operaio 40, più gli straordinari, e sempre con il rischio di perdere di che vivere da un momento all’altro) e a godere di lunghissimi periodi di inattività retribuita (un normale lavoratore al massimo può godere di 21 gg. di ferie in un anno, mentre un insegnante arriva a maturarne anche 32 e tutta l’estate a dare ripetizioni in nero, sempre lavorando al massimo solo 18 ore a settimana), più altre pause per le immancabili tornate elettorali, gli stati emergenziali e le calamità naturali (un qualsiasi lavoratore in questi casi è costretto invece a scalare eventuali assenze forzate dalle ferie), perché non tutti i mali arrivano per nuocere i dipendenti della Scuola pubblica italiana.
La Scuola pubblica italiana rappresenta da sempre la prima esperienza della differenza di classe, che non è stata mai in grado di superare che anzi amplifica. È proprio nelle nostre scuole che i nostri figli sperimentano per la prima volta l’esclusione sociale e il razzismo. Il deperimento degli istituti scolastici si è ulteriormente aggravato negli ultimi anni perché la Scuola pubblica italiana si è vista trasformata in ammortizzatore sociale ché ha raccolto decine di migliaia di improvvisati docenti quarantenni oramai senz’arte né parte, che null’altro è rimasto loro da fare che morire da insegnati. Questa scemenza della Scuola pubblica italiana, ottusa e sorpassata ma soprattutto fascista perché da sempre discriminante e violenta, va fermata.
Pasolini aveva ragione già mezzo secolo fa, e oggi avrebbe ancora più ragione. Si fermi l’orrore della Scuola pubblica italiana. Si fermi questo orrore. Si invii l’esercito per impedirne la riapertura a settembre. Si faccia presto. Si faccia con urgenza. Siamo in pericolo perché i nostri figli sono in pericolo e, allora, il futuro è gravemente minacciato – già vedo le menti migliori delle future generazioni distrutte perché nessuno di loro spende più l’estate tra la campagna a esplorare a fare capanne; nessuno di loro gioca più a pallone nei campetti: è tutta inscenata sopra quei campi e quegli asfalti deserti la tragedia che ci sta ingoiando di ora in ora. Si impedisca per sempre questa Scuola pubblica italiana. Si impedisca l’ulteriore istupidimento del popolo mai stato popolo italiano. Si sbanchi questa fabbrica fascista, da sempre capace al massimo all’allevamento di pecore ma mai di cittadini.
MASSIMO RIDOLFI