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Per tutta la vita Calvino …ha costruito la gioia fisica e mentale di chi legge… A cento anni dalla sua nascita è il momento di raccontare questa storia” e per raccontarla abbiamo rivolto alcune domande allo scrittore Domenico Scarpa che ha pubblicato il saggio "Calvino fa la conchiglia- La costruzione di uno scrittore"

Il suo libro è frutto di anni e anni di studio che lei ha dedicato allo scrittore. Può dirci qual è la chiave di lettura? 
Degli anni di studio ne parliamo più avanti, visto che c’è anche un’altra domanda che tocca quel punto. Posso dire intanto che, se uno studia uno scrittore per così tanto tempo, non è solo e non è tanto perché lo ama, ma perché gli resta sempre qualche cosa di essenziale da capire (da capire, più che da dire). Lo studio nasce dall’ignoranza, che è una condizione che preoccupa ma che ci sfida, che ci fa muovere, che ci rende più forti, più insicuri e più avventurosi. È così che si studia. E non c’è nessuna garanzia che poi, anche dopo tanti anni di studio, uno trovi queste famose “chiavi di lettura”. È stato proprio Calvino a insegnarmelo. Mi è capitato – molti anni fa, nel 1990 – di leggere, per giunta nella sua casa di Roma, dal suo archivio privato, un testo che era inedito in italiano, la prefazione che aveva scritto per l’edizione inglese dei Nostri antenati. E lì diceva, suppergiù, che era contento quando i suoi libri venivano letti in chiave politica o in chiave sociologica o in chiave freudiana, ma era ancora più contento quando vedeva che nessuna chiave apriva tutte le porte: tutte le sue porte. Era una specie di ipoteca messa su chi lo studiava, e l’ho sempre avuta davanti agli occhi. Questo non vuol dire che io non abbia cercato di fabbricarmi delle chiavi mie personali in Calvino fa la conchiglia. Ne dico due, che mi sembrano le principali: la capacità che Calvino ha di inventarsi, quasi a ogni nuovo libro, come se quello fosse il suo primo libro, come se debuttasse ogni volta, e poi quella che lui stesso ha chiamato intercapedine: un ostacolo interiore alla comunicazione, al rapporto diretto con il mondo, con la parola, con i suoi simili, che lo incita a trovare sempre nuovi sistemi – mediante l’uso della parola: mediante lo stile – per superarlo. E tutto questo io ho cercato di raccontarlo, da tante diverse angolazioni, facendone una storia sempre nuova.

Che cosa l'ha colpita dal punto di vista umano di Calvino?
Ho cercato di fare quella che chiamo una “biografia intellettuale” perché non me la sentivo tanto di parlare dell’uomo: che cosa possiamo sapere dell’intimità di una persona? Eppure, l’intelligenza, il modo in cui uno si muove nel suo lavoro, i suoi incontri, le testimonianze di chi lo ha frequentato, sono tutte cose umane, anche intime. E, fatta questa premessa, di Calvino come uomo mi hanno sempre colpito la sua disponibilità a imparare e a ricominciare da zero. La sua capacità di giocare, giocare in un modo incantevole e serio. La sua concretezza, il saper dire cose difficili e precise anche con un linguaggio quotidiano, essenziale, lui che sapeva usare anche un linguaggio prezioso, complesso. Poi la sua riservatezza, il fatto di essere una persona intellettualmente generosa anche se poco espansiva. Il pudore dei sentimenti che è anche pudore della scrittura. Tutte queste cose non so se sono proprio dei pregi, alcune si possono considerare dei limiti, non so bene se intellettuali o umani o tutt’e due, ma so che apprezzo Calvino anche per questi suoi limiti, che lui d’altra parte non nasconde.
 
Quando  ha "incontrato" lo scrittore la prima volta nella sua vita?
Per me ci sono state almeno due prime volte. Sono molto diverse l’una dall’altra, e se le racconto una dopo l’altra, forse arrivo anche a spiegare perché lo leggo e lo studio e scrivo su di lui da più di quarant’anni, e che cosa cerco ancora, dopo tanto tempo. La prima volta è stata alle elementari, o al massimo in prima media. Sui libri di lettura, o su quello che allora (prima metà degli anni settanta) si chiamava il sussidiario, c’erano due racconti suoi. Il primo era su due bambini, Giovannino e Serenella, che giocavano su una spiaggia a tirarsi le alghe, poi vedevano il muro di cinta di una villa, ci salivano, e nel giardino della villa c’era un bambino della loro età, ricco e triste. Giocavano un po’ con lui, poi il bambino ricco veniva sgridato e loro andavano via di corsa, e riprendevano a giocare sulla spiaggia e a tirarsi le alghe. Il secondo, e forse anche un terzo, erano racconti della serie di Marcovaldo: quello dei funghi che Marcovaldo trova, dopo piovuto, nell’aiuola dove c’è la fermata del tram che lo porta al lavoro, ma quei funghi li trova anche un suo rivale, e alla fine tutto il quartiere arriva a raccoglierli: ma sono funghi velenosi, e tutti quanti si ritrovano al pronto soccorso qualche ora dopo, fortuna che ne avevano raccolti pochi per ciascuno; l’altro, sempre di Marcovaldo, è quello dove manca la legna per la stufa, in inverno, e allora lui va con due dei suoi figli piccoli a tagliare i cartelli pubblicitari sull’autostrada. Questi due o tre racconti mi rimasero molto impressi (la stessa cosa capitò con un paio di episodi di Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, altra scrittrice che studio da più di quarant’anni, e di cui curo le opere). Ma rimasero impressi i racconti, non chi li aveva scritti, un bambino non sta a guardare i nomi degli autori, non lo sa neanche che esistono gli autori. Poi, qualche anno più tardi, in prima liceo scientifico, nella bibliotechina di classe trovai una copia di Marcovaldo e lo lessi tutto, fu il primo libro di Calvino che lessi, e fu una sorpresa emozionante ritrovare quei due racconti, rileggerli con una coscienza ancora immatura, con una meraviglia e un avvolgimento completi (sì, avvolgimento, come se mi sentissi arrotolato dentro una coperta), ma comunque diversi rispetto a qualche anno prima, quando li avevo trovati la prima volta. Forse, però, quello che segna la mia nascita come studioso, anche se allora non me ne rendevo conto, è il momento in cui, a sedici anni, nell’estate del 1981, ho cominciato a comprare per conto mio i quotidiani (sono di Salerno; mio padre comprava tutti i giorni il giornale; comprava «Il Mattino» di Napoli, che a me però sembrava scialbo, di basso livello: come facessi a giudicare di basso livello quel giornale, senza sapere niente e senza avere termini di paragone non lo so; ma in sostanza avevo ragione), e prendevo a volte il «Corriere della Sera», a volte «la Repubblica», a volte «La Stampa». E cominciai subito a ritagliare e a conservare gli articoli che mi interessavano. Scoprii che Calvino scriveva su «Repubblica». Il primo articolo suo che ho ritagliato era il necrologio di una giornalista sua amica, Marialivia Serini; s’intitolava La ragazzina e lo scorbutico Pavese; uscì il 27 agosto 1981 e ce l’ho ancora.
 
Lei ha detto che Calvino, come tanti autori del novecento, è uno scrittore multimediale, perché?
La parola multimediale la usiamo oggi; Calvino è morto quarant’anni fa, e all’epoca non si usava. Perciò, quando ho definito Calvino uno scrittore multimediale ho detto qualcosa che ha bisogno di essere tradotto. Da ragazzo Calvino amava disegnare, ma poi ha smesso, non ci sono disegni suoi nelle sue opere scritte. Ha frequentato poco il teatro e il cinema, a differenza di molti suoi coetanei scrittori, e di musica capiva poco, anche se ha scritto alcuni libretti d’opera. Il suo strumento esclusivo di espressione era la parola. Perché multimediale allora? Per la sua curiosità verso tutte le nuove forme di espressione, verso tutti i nuovi linguaggi, anche se poi magari non li praticava. La sua passione per le arti figurative è un esempio. Teatro, cinema e disegno no, musica poco, ma Calvino ha scritto moltissimo sugli artisti e ha scritto, cosa rara, anzi unica per come la praticava lui, molti racconti ispirati a quadri, disegni e opere grafiche, un nuovo genere letterario che quasi si è inventato lui. E aveva fatto svariati esperimenti di scrittura con i programmatori elettronici, gli antenati del personal computer. Si può essere sicuri che tutte le novità tecnologiche lo avrebbero incuriosito, ispirato, e anche le scoperte scientifiche, naturalmente. Ecco perché lo definisco multimediale. Uno degli ultimi racconti che ha scritto è sul telecomando della tv, che allora, in Italia, era una novità.
 
La  copertina  che cosa vuole comunicare al lettore?
Avevo notato che quando si raccolgono le opere complete degli scrittori, in copertina o sul cofanetto c’è la tendenza a mettere una foto dell’autrice o dell’autore da vecchi. Si tramanda l’immagine più recente, che però in realtà è l’ultima, quella che il pubblico ha già dentro gli occhi: dato che il libro deve vendere, il pubblico deve riconoscere subito ciò che compra, così l’autore diventa un marchio e si cristallizza in un’immagine che però è solo la parte finale della sua vita, e magari non la più brillante o avventurosa. Calvino non è morto anziano, è mancato a 62 anni, questo problema forse si avvertiva di meno nel suo caso. Io però volevo in copertina un Calvino da recuperare più indietro nel tempo, un Calvino sorprendente, un Calvino giovane, gioioso, inaspettato, energico e anche un po’ ironico, un po’ sfuggente, così come del resto era. E abbiamo trovato quella foto, che è del 1960, dove lui partecipa con Il cavaliere inesistente, al Premio Strega. Non vince (c’è un bell’episodio, che racconto nel libro, con Pasolini che del suo libro fa una presentazione in versi) ma si diverte, è rilassato, felice, rilassato ma sempre con l’intelligenza, con l’attenzione tesa. Così lo volevo. Ma sulla copertina di Calvino fa la conchiglia quella foto è tagliata a metà nel verso della lunghezza, come se Calvino fosse il suo visconte dimezzato che si affaccia con mezza testa e mezzo corpo (e anche mezza giacca e mezza cravatta) dal margine sinistro della copertina. È stato fatto di proposito, non solo per alludere al Visconte, che è una delle sue opere giovanili e non solo giovanili più belle, ma anche perché era una soluzione grafica che poteva incuriosire chi, in libreria, avrebbe trovato il mio libro sul banco, e poi soprattutto perché quel Calvino tagliato a metà esprimeva, in modo implicito, la scommessa che ho fatto con il mio libro, e che consiste nel suo sottotitolo: La costruzione di uno scrittore. Chi, come me, si mette a scrivere un libro intero su uno scrittore, e gli viene di oltre ottocento pagine, sa che sta facendo un ritratto, ma non sa se questo ritratto gli viene poi completo e somigliante. Oltretutto, sappiamo che Calvino non si faceva mai vedere da nessuno a figura intera (e con questo riprendo la prima domanda, quella sulle “chiavi”). Perciò, la copertina del Calvino dimezzato è stata una scommessa con me stesso e anche un modo per lasciar decidere al pubblico: ma Scarpa ci è riuscito o no a darci questa costruzione di Calvino
ANNA BRANDIFERRO

Domenico Scarpa è nato a Salerno, vive a Pisa e lavora come critico letterario, curatore di testi e consulente editoriale del Centro studi Primo Levi di Torino. Insegna letteratura Italiana all’Università di Napoli “L’Orientale”.
Tra le sue pubblicazioni ci sono: Storie avventurose di libri necessari, Bibliografia di Primo Levi ovvero il primo Atlante. Cura per Sellerio i romanzi di Graham Green e per Einaudi le opere di Natalia Ginzburg.