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FASEDUELEO

Sapete che c’è. Ombrelloni belli distanti senza il fastidioso vociare del vicino di turno che deve, proprio non può fare a meno, di farsi i cazzi degli altri.  Tavolini più distanti che spostano un po’ più in la il mitomane le so tutte,  l’acchiappone penoso, il depresso insostenibile, la vecchia che si rovescia il profumo addosso, l’ascella pezzata, non mi dispiacciono affatto. Bar meno affollati dove si può fare una santa colazione in santa pace. Sapete che c’è. Mi sta bene così. E però, comunque, di questa fase due non riesco a esultare, non riesco a gioire. Ho già come uno stordimento da quando è cominciata. Da lunedì scorso, che si è ripartiti è già passata una settimana: poi, a tratti ho come una compressione al petto. Ho ancora bisogno di star dentro casa, io. Ho già nostalgia del periodo di massima chiusura. Ho maturato una sorta di sindrome dal virus carceriere, e non riesco proprio a ritrovarmi di nuovo sparato nella vita. La nuova vita. Anche perché… diciamocelo: di che vita stiamo parlando?

Ho paura di quello che sto vedendo in giro. Premesso che so perfettamente di parlare da una posizione privilegiata, ma tant’è, è la mia vita, e di questo posso testimoniare. Paura del virus, paura per la perdita del lavoro per tanta gente. Paura della solitudine . Paura dell’altro. Paura della paura. Incredulità e senso di smarrimento, poco alla volta si sono alleati a compostezza, praticità e lucidità. Si sono riorganizzati e hanno tenuta alta la guardia non abbandonandosi o lasciandosi stordire e prevaricare dallo choc. Siamo diventati tutti seri, diligenti, ligi, bravi.

Abbiamo scelto un virologo capobranco, lo abbiamo ascoltato con fiducia ogni volta che ha annunciato le sue dirette. Abbiamo seguito tutti i bollettini della Protezione civile e seppur nel dolore per i numeri spaventosi di contagi e di morti, pian piano ci siamo adattati al tutto chiuso e a questa vita da ritrovare, sentendoci anzi fortunati e privilegiati di vivere in una regione con pochi ammalati. Abbiamo rimodellato le nostre case, riorganizzato gli spazi, permettendo di continuare a seguire le proprie cose a chi ha dovuto lavorare, fare lezioni online, a chi ha dovuto studiare e ognuno ha trovato il suo posto. Abbiamo accettato che i nostri figli, le nostre mogli, le nostre amanti, altri insomma, vedessero tutto di noi. Abbiamo condiviso con loro ogni pensiero e ogni azione. Non gli abbiamo potuto più filtrare le notizie, né distillare gli aspetti brutali della vita. Nel poco tempo che trascorrevamo insieme a loro, prima del virus, riuscivamo a fargli da scudo ma in questa nuova vita, fatta di straordinaria vicinanza, abbiamo calato la maschera e acconsentito, senza più alcun pudore, che scoprissero definitivamente le nostre ombre storte e scomode. E questo ci ha fatto bene. Abbiamo visto i rapporti crescere ematurare e svilupparsi velocemente, oppure disintegrarsi in mille pezzi avendo scoperto chi sono io davvero e chi sono gli altri con cui dividevamo tutto, proprio tutto, quasi tutto, forse non tutto, poco o niente. Ci siamo dovuti sostituire, alla scuola, agli amici, alle amiche, all’amante, allo sport. E questo ci ha fatto bene.Oppure ci ha fatto odiare il mondo. 

Abbiamo scoperto nei nostri nuclei familiari e amicali nuove forme di convivenza, nuovi equilibri, nuove complicità, e anche questo ci ha fatto bene. O ci ha fatto perdere tutto. E con una smorfietta sul sito ci siamo accorti che di perdere questo tutto, non ce ne sbatte le palle. Abbiamo, poco alla volta, abbandonato la paura e ceduto il posto a una riflessione e a un sentire più profondi. Complici il silenzio, il vuoto, l’aver rallentato la corsa, è emerso qualcosa di inedito. Qualcosa di molto prezioso.

La vita vissuta fino ad allora, la nostra vita, quella che abbiamo costruito, pezzo su pezzo, e che ci sembrava appagante, e bellissima, ha cominciato a sbiadirsi e a prendere le connotazioni di una grossa, nebulosa fregatura, sempre più fitta, sempre più densa ma sempre più lontana, fino a sbiadirsi e perdere i contorni. In questo sfiorare una leggerezza, assenti di biografia, fluttuanti e soli, ma uniti al mondo in un destino comune, lo sguardo si è posato su qualcosa che non avevamo mai visto prima e una nuova consapevolezza ha cominciato ad abitarci: deresponsabilizzati, privati dell’ansia, svuotati, immobilizzati, possiamo vivere felicemente e fare a meno quasi di tutto. Molto più tranquilli. Sereni. Sempre con quel beato #ecchissenefregapronto a sibilare.

E’ stato allora che ho provato sconcerto e stupore tutte le volte che ho guardato il nuovo cielo – e che colori – questa primavera che sta esplodendo – e che profumi -  e tutte le volte che ho sentito l’aria sulla faccia tagliarmi il viso, aria prepotente, tagliente sfrontata. E poi a piegarmi le ginocchia è stata quella prima onda che ieri mi ha preso le caviglie, quasi per dirmi, dai è tempo del primo bagno. Poi quel maledetto profumo, nuovo, venuto da lontano, dai paesi che amo, che mi hanno assediato per tutto il viaggio. Poi il profumo del grano e l’erba tagliata di fresco, da cui ero solito lasciarmi avvolgere, e quel soffiare libero del vento robusto, muscoloso, padrone di tutto lo spazio e dovergli poi cedere il passo, come in una danza, alla dama del silenzio. Di ogni singolo video della giornata ho gioito in questi mesi, da quello di mamma papera coi paperotti in fila su un marciapiede, passando per quello del giovane ragazzo che esegue un motivo di Morricone da un balcone dietro casa mia su piazza Navona, sino ai delfini saltellanti efelici finalmente unici padroni delle acque blu di Capo Miseno, no era Genova ma forse Ischia, ma no è Gallipoli, forse era Roseto.

La mia mente e il mio cuore sono ancora là, tra quelle giornate dense di vuotoChe non sono state mai vuote. Avevo in testa di fare tante cose. Non sono riuscito neppure a selezionare le magliette da buttare. Il vicino ha ripreso i lavori di ristrutturazione, martelli seghe e trapani non ci danno tregua, il cielo ha ripreso un colore latteo, il vento a soffiare nella sua forma più generica, i clacson a strombazzare forte e anche se non vedo l’ora di tornare all’amata vita “normale”,quei giorni mi mancheranno tantissimo. Se ogni tanto, una volta ogni tanto, potesse tornare, non mi dispiacerebbe. Girare nelle città deserte. Quella presenza opprimente che chiamiamo speranza. Sentire i profumi dei tigli. Immergersi nel silenzio di una piazza. Chiamare un amico per chiedergli come va. Un giro in moto vietato come quando ero ragazzo. Attendere un abbraccio. Poterla rivedere . Il sogno notturno di un bacio.  Sai che c’è: aspetto novembre impaziente. 

Leo Nodari